venerdì 15 luglio 2016

NOTERELLE UCRIESI 8 Nino Pinzone “Palagunia” Ucria e Santu Prazzitu (San Placido)

NOTERELLE UCRIESI 8
Nino Pinzone “Palagunia”
  
Ucria e Santu Prazzitu (San Placido)

Nel ricco repertorio di cunti e storielle con cui quell’indimenticabile personaggio che fu la gnura Nina ‘a Taddarita soleva intrattenere gli astanti (in particolare durante le veglie funebri di cui era assidua e ben accolta frequentatrice) c’era un racconto dal titolo ‘U gigghiu i Santu Prazzitu, di ambientazione ucriese. Ebbi occasione di leggerlo, anni fa, nella trascrizione dattiloscritta fattane da mio padre sotto dettatura della gnura Nina e non vi nascondo che ebbi allora qualche perplessità in considerazione soprattutto del fatto che non mi risultava che San Placido rientrasse nel ricco panteon di santi degli Ucriesi e delle loro chiese e cappelle.
Dovetti, però, presto ricredermi. Circolava in paese, tempo addietro, una interessantissima memoria storica composta intorno agli anni Sessanta da un eminente sacerdote nostro compaesano che tracciava le linee della religiosità dei suoi compaesani nella prima metà del Novecento e lamentava un certo decadimento, dovuto, secondo il suo modo di vedere le cose, ad una certa incuria da parte dell’Arciprete del tempo, di cui era stato sfortunato antagonista ai tempi del concorso per la parrocchia di San Pietro. Riconosceva, onestamente, i meriti dell’Arciprete (tra cui quello di aver rifatto il bel pavimento della chiesa madre), ma lamentava un depauperamento degli arredi sacri che sarebbero stati, a suo modo di dire, manchevoli rispetto al passato. Non c’rta pù traccia, tra le altre cose, anche di una pregevole statua di San Placido con icastonata la reliquia di un dente del santo. Ecco l’anello mancante. Il legame degli ucriesi con il copatrono di Messina era dunque reale, come evidenziato appunto dal racconto della gnura Nina.
Molto interessante la notizia relativa alla reliquia di San Placido. Era questi un monaco benedettino inviato da San Benedetto a fondare un monastero in Sicilia, il secondo dopo Montecassino. Secondo quella che, probabilmente, è una leggenda risalente alla fine dell’XI secolo, Placido, con altri suoi compagni, sarebbe stato martirizzato a Messina il 5 ottobre del 541 durante un’incursione di pirati saraceni.
Nonostante che non si avesse più notizia della sua tomba, i messinesi erano rimasti fedeli al culto del discepolo di San Benedetto, culto che subì un efficacissimo revival in seguito ad un episodio verificatosi nel 1588. Il parroco della chiesa di San Giovanni di Malta (dietro la Prefettura, nei pressi di Villa Mazzini) per dare più luce alla chiesa decise di cambiarne l’orientamento, aprendo tre grandi portali là dove c’era l’altare. Quale fu la sorpresa quando, dopo avere smontato quest’ultimo, a pochi centimetri di profondità venne ritrovata una tomba con dentro quattro scheletri. Il buon parroco entrò subito in fibrillazione e comunicò la cosa all’arcivescovo. Ai loro occhi non c’erano dubbi: consapevoli del fatto che i cristiani dei primi secoli erano soliti costruire chiese sul luogo della tomba dei martiri, ne dedussero che le ossa ritrovate durante i lavori dovessero esser appunto ossa di santi martiri; e di chi altri potevano essere se non dei santi Placido e compagni, gli unici martiri ad essere attestati per la città dello Stretto? Il vescovo in persona si recò dal Papa Sisto V con una delegazione. La risposta del papa fu positiva e sancì il convincimento che quelle erano proprio le ossa di san Placido.
In città scoppiò il finimondo. Finalmente anche i messinesi disponevano di reliquie (naturalmente in aggiunta al capello della Madonna della Lettera…) da contrapporre a quelle di Santa Rosalia e di Sant’Agata di cui andavano fieri gli odiatissimi palermitani e catanesi. In città vennero organizzate processioni, si eressero baldacchini e archi trionfali e si accesero fiaccole e luminarie per le vie cittadine; il fervore religioso raggiunse livelli elevatissimi, anche perché si diffuse subito la voce dei primi eventi miracolosi. Arrivarono da ogni dove richieste di reliquie che furono in qualche modo soddisfatte. A questo è dovuto se resti del santo, oltre che a Messina e nel messinese (Castel di Lucio), si trovino anche in Puglia (Poggio Imperiale), Liguria (Ceriana), Calabria (Seminara) e nel catanese (Biancavilla). E’ probabile che il dente di San Placido incastonato nella statua esistente in passato nella chiesa madre di Ucria vi sia arrivato in quelle circostanze, magari col patrocinio di qualche potente locale residente a Messina, come era appunto il caso di Pietro Marquet, barone di Ucria negli anni del ritrovamento delle reliquie. Non si dimentichi, per spiegare mrglio la concessione della reliquia, che la parrocchia di Ucria apparteneva in passato alla diocesi di Messina e non , come oggi, a quella di Patti.
Recuperato San Placido alla storia di Ucria, il racconto potrebbe qui terminare, ma il dovere di cronaca mi impone di andare oltre e aggiungere altre notizie, sulla scorta di quanto ebbe a dire in una interessantissima conferenza tenuta al Rotary Club di Messina dal grande storico messinese Salvatore Calderone, mio riverito maestro all’Università di Messina.
Passarono gli anni e il culto di San Placido fu sempre in auge nella città peloritana, di cui era divenuto copatrono. Dopo il terribile sisma del 1908 si pianificò anche la costruzione della Prefettura (nelle intenzioni doveva essere la Grande Prefettura, punto di convergenza di tutte le prefetture siciliane…). Iniziati i lavori, cominciano a venir fuori resti archeologici e ossa in grande quantità. Si trattava di una necropoli romana di età imperiale, come appurò Paolo Orsi, il padre dell’archeologia siciliana, subito giunto sul luogo per coordinare i lavori di scavo. I lettori più attenti avranno già capito: la prefettura è contigua alla chiesa di san Giovanni di Malta dove nel 1588 erano state rinvenute le ossa di San Placido. Da qui a concludere che queste ultime altro non dovevano essere se non le ossa di qualche ospite della necropoli antica, che non si sarebbe mai sognato di ..assurgere agli onori degli altari, il passo è breve. A parlare in questi termini ai responsabili della parrocchia si rischia naturalmente di essere tacciati di blasfemia. Guai a dubitare delle sante reliquie, racchiuse nel 1616, in un sacello risparmiato sia dal terremoto del 1918 che dai bombardamenti della II guerra mondiale.
Va da sé che la falsità delle reliquie nulla toglie alla santità di Placido, che i messinesi continuano piamente a venerare, sia pure in maniera ridotta rispetto a quanto non facessero in passato. Fa però riflettere sulla credulità degli uomini, su quanto sia facile, in mancanza di efficaci metodi di controllo, farsi suggestionare, farsi convincere di determinati fatti.
Le moderne tecniche di indagine consentono oggi agli archeologi di non prendere abbagli troppo grossi quando si tratta di datare i reperti. Se nel ‘600 il progresso tecnico e metodologico avesse raggiunto livelli più avanzati, né i messinesi (né lo stesso Sisto V che sancì con una bolla l’autenticità delle reliquie) si sarebbero mostrati così ingenui e creduloni.
Mi piace credere, anche se, onestamente, non esistono argomenti per rafforzare questo convincimento, che la scomparsa della statua e del dente di san Placido ad Ucria, abbia in qualche modo a che fare con una presa di coscienza, da parte dell’allora arciprete (o di qualche esponente della curia vescovile di Patti), della probabile falsità della reliquia in oggetto.

A conclusione voglio anche ricordare (come, con una venatura di campanilismo, non mancavo di fare con i miei studenti durante le mie lezioni introduttive al corso di Storia romana) che l’episodio delle ossa di San Placido aveva un illustre precedente nella Padova del tardo medioevo. Anche qui, durante lavori di scavo, vennero ritrovate delle ossa, tra l’altro di dimensioni ragguardevoli, cosa che fece pensare appartenessero ad un individuo eccezionale e non solo fisicamente. Fu un noto erudito locale a togliere ogni dubbio, sentenziando che le ossa appartenevano senz’altro allo scheletro del troiano Antenore, mitico fondatore della città, di cui parlava lo stesso Virgilio nell’Eneide. Fu allora che i patavini, pieni di orgoglio, eressero la tomba di Antenore, monumento ancor oggi visibile tra le principali attrazioni turistiche, con la Cappella degli Scrovegni e il santuario di Sant’Antonio, per i visitatori della città veneta. Ma è risaputo che a quei tempi, progresso tecnologico a parte, i confini tra fatti leggendari e fatti storici erano ancora molto ma molto labili.

Nessun commento:

Posta un commento