venerdì 15 luglio 2016

LA FARMACIA Angela Niosi

LA FARMACIA
Angela Niosi
La ricordo come un posto speciale.
Vi si accedeva scalando due gradini, percorrevi una sorta di piccola anticamera, dove era possibile ripararsi in caso di pioggia o quando volevi momentaneamente nasconderti, lanciavi uno sguardo veloce sui vetri a specchio laterali e spingevi una porta opacizzata, sulla quale ti inquietava uno stemma con due serpenti attorcigliati attorno ad un bastone alato.
Avevo l’impressione di entrare in un tempio.
La prima cosa che mi colpiva erano i pavimenti, incastri geometrici che, a guardarli fisso, davano le vertigini e ti pareva di caderci dentro come nel racconto di Alice nel paese delle meraviglie.
Io ci speravo.
Lo sguardo impattava su un bancone antico, intagliato con abilità, sulla cui parte inferiore una vetrinetta convogliava il tuo sguardo.
Lì erano in mostra prodotti cosmetici che io ammiravo con occhi sognanti immaginando il giorno in cui anch’io ne avrei fatto uso.
Alle pareti, austere vetrine ti guardavano dall’alto in basso; all’interno una varietà di allegre scatole colorate incoraggiavano la guarigione.
Alle spalle del bancone, un’apertura lasciava intuire il retrobottega. Era quasi sempre al buio ed io, nell’attesa del mio turno, immaginavo scenari di grande magia.
Sulla sinistra si affacciava un altro locale dove, oltre ad una scrivania, ricordo un’esibizione di articoli per neonati.
Entrando, avvertivo chiaramente un odore opaco, chimico, sfuggito chissà come dai contenitori e un leggero sentore di umidità, proveniente dal retrobottega, che mi accecava il naso.
Non era prevista la fila e ai bambini toccava sempre l’ultimo posto.
Ogni tanto, qualcuno adduceva una scusa per poter anticipare un cliente, era difficile dire di no, perché ci si conosceva, ma mi pare di aver visto volti contrariati e udito mormorii di disappunto, magari rivolgendosi al vicino di fila: “Tutti avimu chi fari”.
Poiché avevo tempo, osservavo con attenzione quel che succedeva intorno a me.
La farmacista era una donna fine e delicata, una carnagione soffice come una nuvola con piccoli spruzzi di nei.
Portava occhiali che le ingrandivano lo sguardo e un camice sbottonato alla fine che si apriva mostrando l’ultimo pezzo di gonna.
I capelli tendevano al rossiccio e un ciuffo prevaricatore scappava su un lato della fronte.
Aveva labbra fini, colorate di rossetto e mani poco affusolate.
Era calma nei movimenti e dava l’impressione che, per lei, il tempo fosse un’opportunità e non un nemico.
Parlava senza fretta e, quando rideva, le si aprivano due fossette che si spianavano nel momento in cui ridiventava seria.
Andava avanti e indietro, apriva e chiudeva vetrine, staccava bollini che poi attaccava sulle ricette, intratteneva con qualche chiacchiera ed era gentile con i bambini.
Sembrava non perdere mai la pazienza e di pazienza credo ce ne volesse molta, nel suo lavoro.
Era abile interprete estemporanea di nomi storpiati dei farmaci, pronunciati da vecchietti senza scuola. Spiegava infinite volte dosaggio e controindicazioni a facce perplesse che muovevano il capo come a sembrare di aver capito e poi chiedevano: “Si’, si’ ma quantu n’aja a pigghiari di sti pinnuli?”
Molti pretendevano che il farmaco fosse prontamente disponibile e, se gli si diceva che c’era da aspettare, alzavano gli occhi al cielo assumendo un’espressione volutamente compassionevole, cercando conforto anche nello sguardo degli altri paesani che facevano finta di commuoversi.
La farmacista era la mamma di una mia compagna di scuola e amica di lunghi pomeriggi trascorsi insieme, nella sua casa antica e misteriosa dove avevo la possibilità di far merenda con panino fresco di forno, accompagnato dal salame.
A me, però, il salame non piaceva e, di nascosto, lo lanciavo al cane che viveva con loro da molti anni.

E il cane lo afferrava al volo, restituendomi, mi pareva, uno sguardo riconoscente. 

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