venerdì 15 luglio 2016

IL NOSTRO LINGUAGGIO- LE NOSTRE PAROLE Luigi Pinci

IL NOSTRO LINGUAGGIO- LE NOSTRE PAROLE
Luigi Pinci
Alla fine degli anni Cinquanta, a scuola, a partire dalle elementari, nelle lezioni di italiano, ci insegnavano a costruire un periodo. Le nozioni via via si affinavano e noi, studenti delle medie, dovevamo mettere in pratica la costruzione di quel periodo affinché esso potesse essere letto e compreso da chiunque.
Il libro di Grammatica italiana era uno dei primi strumenti che l’alunno, lo studente, doveva tenere a portata di mano. Allora era facile averlo a portata di mano; non tutti avevano una cartella, pur se di cartone pressato, e men che meno una libreria dove, una volta acquistato, si poteva imboscare o far figurare come un arredo passivo.
Col passare degli anni, la voglia di “rivoluzione”, di anticonformismo cominciò a “lavorare” perché alcuni programmi scolastici fossero scalzati, considerandoli obsoleti.
Pian piano non si sapeva più a cosa si alludesse quando si parlava di “costruzione di un periodo”. Ognuno poteva scrivere come meglio credeva fosse più giusto, anche se tanti non capivano cosa volessero esprimere verbalmente. I più eruditi nel parlare non formulavano per intero  neanche le frasi e. quasi a sfidare chi ascoltava   un loro  silenzio mugugnato, voltavano le spalle pensando a qualche altra cosa.
Stavano scomparendo le frasi, i concetti, le parole.
Chi era stato bravo a scuola ed aveva appreso le “regole”, pur se aveva acquisito capacità di sintesi,  rimaneva quasi allibito nel sentire come veniva formulato un discorso: parole “nuove”, senza senso, smozzicate, fuori da ogni contesto o meglio che potevano entrare (s)comodamente in ogni contesto.
Cominciava un’epoca in cui si percepiva una certa difficoltà nella comunicazione.
Le classi sociali più disagiate intanto cercavano di colmare il gap che le aveva diviso da quelle mano abbienti (anche culturalmente). A loro, per farsi capire, non sembrava più giusto, di moda, continuare a parlare il dialetto. Credevano in un loro riscatto socio-economico-culturale parlando in italiano anche con chi  non era più colto o con chi colto era  e tranquillamente continuava a mantenere il dialetto come un’identità da non abbandonare, capace di farlo esprimere in maniera “completa” e comprensibile oltre ogni aspettativa. I più “moderni” ed acculturati, però, loro malgrado, non riuscivano più a sintetizzare in italiano ciò che era l’equivalente di una espressione dialettale concentrata, spesso, in una sola parola e capace di esprimere, molte volte, un intero concetto.
L’Italia era stata fatta, gli italiani andavano pian piano facendosi, la lingua italiana andava perdendosi, i dialetti andavano esiliati.
Strada facendo si perdevano pezzi di una grammatica non studiata, di un vocabolario ricco di parole italianizzate ma incomprensibili.
Col passare degli anni, è inevitabile che tornino alla mente alcune parole “antiche” che usavano i nostri nonni.
Andando alla Putia o Sassamenteria (oggi salumeria) si comprava un’unza. un quattaruni, di questo o quel prodotto alimentare. Quando nella case mancavano le vasche da bagno e le docce, le nostre mamme, quando tornavamo dal cortile (vero luogo di socializzazione per i bambini di quegli anni ormai lontani, sembra, anni luce) ci facevano il “mezzo bagno”, mentre stavamo ritti e indossando soltanto la mutandina, dentro le “bagnarole”. Gli anziani e i bambini si sedevano ’nto
Bisolu; si sentiva il rumore degli zoccoli dei cavalli o dei buoi da tiro che percorrevano le strade di basolato, si giocava  con le nocciole “’a fussitta”; “’ntescaluni” si giocava “a ciuscia” con le cartelle dei giocatori di calcio e delle attrici (a me piaceva la Lollobrigida e quando nella mazzetta messa “in palio” c’era la sua figurina, cercavo di soffiare bene e forte per vincere), si giocava “a monti” cercando di non far cadere dal ciglio del marciapiedi un tappo di bottiglia di gassosa o di birra; c’era ’u paloggiu” e chi perdeva in questo gioco si assoggettava alle “papagne” che, quando il paloggio era “muddisi” lo spaccavano letteralmente in due. A questo punto il malcapitato giocatore o andava via o doveva comprarne frettolosamente un altro (Il costo? Cinque o dieci lire della fine degli anni Cinquanta; a seconda del rumore che questo giocattolo produceva, si diceva “vadda ch’è sita!” e c’erano due opzioni per lanciarlo e imprimergli la forza per farlo  girare: supramano (lancio dall’alto verso il basso) o suttamanu (quando la tecnica era quella di lanciarlo parallelamente alla superficie dove doveva girare. Tecniche di alta precisione!!!).
Per carnevale c’era “’u cannulu” attraverso il quale si sparavano “’i npennuli”  tra i capelli delle ragazzine (oggi lo giudicherei un tipo di corteggiamento pre-adolescenziale: guarda caso carnevale cadeva quasi sempre in febbraio, il mese degli Innamorati.)
Quante altre parole affiorano come germogli dalle radici di un vecchio albero!
Si diceva: <<Ora t’addubbuiò>>. Ciò preludeva ad una manciata di botte per aver commesso qualche marachella; se invece si diceva <<t’addubbu un paninu>> significava che la mamma cercava di prepararci un panino con quel che si poteva trovare in casa (ed allora non c’era proprio tanto!).
Si adoperava un’altra parola: <<Dulliare>> che vuol dire qualcosa di più o qualcosa di meno di “Tardare”. Per dire che si perdeva tempo qualcuno veniva apostrofato con la frase: Chi fai? Tafissii? 
Mi chiedo come potrebbe rendere in italiano e sinteticamente il senso che si dava ad altre parole:
L’acqua spisiddia
L’acqua spaccau“ ’u bugghiu”.
Negli anni Sessanta la produzione cinematografica fece conoscere a gran parte degli italiani il nostro dialetto e, qualcuno (di cui mi sfugge il nome) scrisse <<La lingua dialettale parlata nei film è più un italiano di Sicilia che il siciliano>>. Avvenne così che molti non venivano a conoscenza del nostro dialetto, del significato della parole, ma potevano “innamorarsi” di quella “parlata”. Proprio recentemente, trovandomi all’estero, un occasionale compagno di viaggio, mi ha chiesto di parlare in dialetto perché era catalizzato del linguaggio e della cadenza che Montalbano dà alle sue espressioni negli sceneggiati di Camilleri.
Il cinema ha fatto, fa la sua parte, ma, sinceramente, ci sono termini di cui neanche io conosco il significato.
Tempo fa comprai una ristampa del dizionario siciliano-italiano (di Vincenzo Nicotra, la cui prima edizione risale al 1883); alcune parole del primo Novecento naturalmente non si trovano e non è che la sua consultazione abbia portato, durante le mie ricerche, a risultati significativi. Tant’è!
E poi, quante parole cambiano da un paesello all’altro, da una borgata all’altra della nostra stessa Provincia.
A Messina, riferendoci ai bambini diciamo “i picciriddi,  mentre a Patti, dicono “i carusitti
A Messina, si dialettizza “dove andate?” con “Unni annati?”, a Patti con “Unni iti” (radici latine) che si trovano anche quando a Patti dicono “c’esti” o chi faci” corrispondenti al messinese “c’è” o “chi fai”.
Tralascio le tante parole che affondano le radici nelle lingue dei vari popoli che hanno conquistato e dominato la nostra terra. Veniamo ai nostri giorni.
La “costruzione di un periodo”, argomento iniziale di questa chiacchierata, è qualcosa di cui, oggi, non mi sembra si abbia  neanche la più pallida idea. I nuovi mezzi tecnologici che hanno indotto ad usare le dita delle nostre mani non più a tenere una penna ma a pigiare continuamente i tasti di un computer o di un telefonino, hanno drasticamente ridotto all’osso, se non per capacità di sintesi logica ma per necessità, le parole, l’espressività delle parole, espressività che magari sono attribuite a dei segni programmati, omologati, standardizzati, globalizzati (tanto per essere in  linea con tutto il resto che già da tempo conosce questa globalizzazione). Sono nati gli Emoticon che sotto sotto  ti fanno intendere che essi sono i veri messaggeri delle Emozioni
Le frasi non esistono più e per chi era abituato a costruirle, risulta difficile entrare in un’ottica rivoluzionata che non ha più regole e che è frutto di invenzioni estemporanee soggettive o soggettivizzate.
Si può trovare sempre qualcuno che ti fa vedere ciò che tu non vedi, ti fa giustificare ciò che tu non giustifichi.
Nell’osservare come le parole parcellizzate ci hanno fatto perdere il gusto, anche quello estetico, della nostra lingua, mi fu detto che questo “tipo” di scrittura ha degli esempi “storici” e mi invitò a riflettere sulle iscrizioni poste su certe antiche “pietre”. Mi fece notare che alcune di queste iscrizioni era necessario interpretarle proprio perché non erano formulate con parole intere perché lo scalpellino dell’epoca non aveva potuto far “entrare” in uno spazio risicato di quella pietra le parole per esteso.  Rimasi disarmato e non seppi controbattere.  Corsi e ricorsi storici?

Rimane solo una consolazione, forse amara: Vuoi negare l’espressività ed il senso intrinseco di quando diciamo nel nostro vernacolo. <<Ma vaia, leviti di ddocu!>> Ognuno gli può dare tanti significati, certamente molti di più di quanto non possa darne una di quelle faccine che ti ritraggono triste, sorridente, serio, con aria sfottente o addirittura in lacrime da “appiccicare” ad un SMS che potrebbe essere l’acronimo di Senza Molti Significati.

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