martedì 14 giugno 2016

VANEDDE di Angela Niosi

VANEDDE
Angela Niosi

Pericolosamente in discesa o mitigate da gradini facilitatori, piatte o sfacciatamente sinuose, protette dalla complicità di case discrete, le vanedde rappresentavano il luogo privilegiato di incontri segreti e misteriosi giochi di bimbi.
Appoggio lo sguardo su di esse e capisco che soffrono di abbandono.
Lo capisco dall’erba sfrontata che, pian piano, si appropria di altro spazio, lo capisco dai pezzi di carta ingiallita che nessuno raccoglie, lo capisco dalla sgretolatura di muri appassiti.
Mentre procedo con lentezza, avverto la solitudine delle case che le guardi e ti sembrano persone ferite.
Quella ha la testa sfondata perché le tegole non hanno retto più, quell’altra ha gli occhi ciechi perché nessuno si affaccia dalle finestre per spiare là fuori, quell’altra ancora ha la bocca deformata perché la porta non si è più aperta ad accogliere sorrisi.
Raccontano le vanedde. E raccontano le case.
Ed io ascolto.
Ascolto voci sussurrate a scambiarsi segreti, grida di mamme che chiamano figli distratti, voci gioiose di bimbi in cerca di nascondigli sicuri, pianti di neonati cullati da antiche nenie.
Ed io annuso.
Annuso gli odori, fantasia di cucine intrecciate sfuggite a massaie sudate, a stuzzicare i nasi curiosi.
Ed io vedo.
Vedo graste di basilicò davanti alle case e fili di tende che si muovono all’aria.
E donne sedute a sgranare fagioli con un occhio che l’altro serve  a spiare passanti.
Rivedo la vita e mi rimbomba nell’anima.

Rivivono le vanedde, rivivono tutte le volte che ci passi perché le nutri coi tuoi ricordi e le rivedi con gli occhi felici di ieri.  


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