sabato 14 maggio 2016

NOTERELLE UCRIESI 6 QUARTE DIVAGAZIONI ONOMASTICHE: SOPRANNOMI, ANIMALI E CONTESTO SOCIALE E LAVORATIVO Nino Pinzone “Palagunia”

NOTERELLE UCRIESI 6
QUARTE DIVAGAZIONI ONOMASTICHE: SOPRANNOMI, ANIMALI E CONTESTO SOCIALE E LAVORATIVO
Nino Pinzone “Palagunia”
Si è visto, nelle precedenti divagazioni onomastiche, come l’origine dei soprannomi ucriesi possa essere la più varia, ma la casistica non si è certo esaurita, anzi. Ho deciso di portare avanti, s’intende per puro divertimento e senza alcuna pretesa di completezza e scientificità, il mio lavoro di analisi e pertanto, a costo di annoiare i miei pochi ma affezionati lettori, propongo qui altri gruppi di ‘nciurie, a cominciare da quelle che hanno a che fare con nomi di animali.
Eccone un elenco, tratto dalla solita fonte:
Aciddittu, Agneddu, Beccu, Buffu, Buffi (Ttacca), Cagnulinu, Capuni, Chiattidda, Ciaredda, Ciauledda, Cirnecu, Cuccu, Cunigghiu, Elefanti, Gaddazzu, Gaddina (Coddu ‘i), Gaddinedda, Gaddu, Gaddu biancu, Gadducefiru, Gatta, Gurpigghiuni, Gurpuni, Jaddu, Jadduzzu, Jirriddu, Lepri, Lepru, Liuni (Brasi)‘u Lupu, Lupu, Lupu minariu, Merlu, Mulu, Oca (Porca l’), Paventula, Pecura bianca, Pernici, Picuredda,  Pisciucani,  Pisciustoccu,  Purvitruni  (o Purvitiruni?), Rizzu, Sceccu, Suricittu, Taddarita, Viteddu, Vitiddazzu, Zafratedda, Zafrocu, Zazzamilla, Zicca.
                Come si vede, per tali soprannomi sono utilizzati praticamente tutti i tipi di animali, da quelli domestici a quelli selvatici, dagli uccelli ai mammiferi caratteristici della fauna delle nostre case e delle nostre campagne, con qualche piccola eccezione però, come Elefanti, Pisciucani, Pisciustoccu, Lupu minariu. Tra le eccezioni anche Gadducefiru, verosimilmente sicilianizzazione di Gallo Cefalo, nome che niente sembra aver a che fare con il maschio delle galline ed è invece identificabile con quello di una specie ittica, detta pesce San Pietro o anche pesce Gallo. Non c’è dubbio che il riferimento in questione sia parecchio strano per un paese montano e lontano dal mare come Ucria. In passato, qui il pesce arrivava di tanto in tanto, ma si trattava quasi esclusivamente di sarde, acciughe o altri tipi di pesce azzurro di basso pregio. A portarlo, quando ero ragazzo, era un orlandino, che caricava due casse sulla sua vecchia Lambretta e, arrivato a Ucria, andava a posizionarsi in piazza, nell’angolo sotto la facciata del municipio dove inizio alla vendita. Si serviva a volte di un banniaturi (tutti ricorderanno Bastianu, fratello di Peppi l’Orbu), che avvisava la gente che in piazza era possibile acquistare buon pesce fresco a basso costo. In realtà, come si vantava il suddetto venditore tra i suoi compaesani, si trattava di “ristatini”, rimasugli, e di pesce al limite della conservazione. La cosa mi fu riferita, ridendo, dal caro Pippo Messina, a cui, sempre ridendo, risposi io che si trattava di una specie di contrappasso per tutta la carne di pecora, anziché di castrato, che i macellai ucriesi facevano occasionalmente mangiare agli orlandini. Se a ciò si aggiunge la polvere di cui si impregnava il pesce nel tragitto da Capo d’Orlando a Ucria, allora in gran parte non asfaltato, pensate a cosa non erano costretti a ingurgitare i nostri poveri nonni e i nostri poveri padri. Tutto però passava in secondo piano di fronte al piacere e alla grande soddisfazione di poter variare saltuariamente il solito, trito e ritrito, menu quotidiano.
Un’altra piccola chiosa a proposito di Purvitruni: è derivato dal nome di un uccello, ma non escluderei del tutto che abbia a che fare con una cantilena parecchio diffusa ad Ucria e sicuramente anche altrove[1], almeno fino agli anni della mia fanciullezza. Essa suonava così:
Sacciu un nidu ‘i purvitruni sutt’all’anchi du patruni.
A questa se ne aggiungevano anche altre similari:
Sacciu un nidu ‘i gutturusa sutt’all’anchi ‘i ‘dda carusa, oppure
Sacciu un nidu ‘i carcarazza sutt’all’anchi ‘i ‘dda ragazza.
L’allusione scherzosa (e maliziosa) a parti nascoste del corpo maschile e femminile non era affatto nascosta e contribuiva in maniera rilevante alla sopravvivenza delle suddette cantilene.
Altrettanto interessante un’altra tipologia di soprannomi ucriesi, quella, cioè, geneticamente collegabile con mestieri, professioni, titoli, incarichi, funzioni varie. Se ne riporta qui un lungo elenco.
Arginteri, Avvocatu, Bannista, Barbera, Bardunaru, Barrilaru, Baruni/-issa, Calaciaru, Caliaru, Camperi,  Canalaru, Capitanu, Carritteri, Carvunaru, Castagnaru, Cavaleri, Chiavaru, Ciancianiddaru, Cucchiararu, Cipuddaru, Cirasara, Collocaturi, Colonnellu, Cracularu/a, Craparu, Cumannanti, Curateddu, Curatulu, Cutidderi, Dittureddu, Esatturi, Farmacista, Franninaru, Funnacaru, Furgiaru, Furnaru, Fusaru, Gaddinaru, Guardia, Ispetturi, Lardaru, Luppinaru, Maresciallu, Marescialluni, Marmista, Mastriceddu, Mirceri, Mulinaru, Officiali, Onorivuli, Organista, Parrineddu, Parrinu spugghiatu, Piattinaru, Picuraru, Pipariddaru/ara, Pirsicaru, Pitturi, Pridicaturi, Pusteri, Raluggiaru, Rancasciaru, Sagristanu, Sardiddaru, Sbirru, Scarpareddu, Sciameca, Sergenti, Spazzinu, Spizziali, Staddunaru, Stagnataru, Surfariddaru, Tabacchinaru, Trummetta, Trummittuni, Trummuni, Ugghiaru, Ugghiularu, Umbrillaru, Usceri, Vaccaru,Vicariu, Vucceri[2].
Da una attenta considerazione dei soprannomi presenti in tale elenco viene fuori uno spaccato del corpo sociale della popolazione ucriese dei tempi andati di straordinario interesse.
Più che quelli derivanti da titoli nobiliari, civili, militari o professionali (Baruni, Cavaleri, Cumannanti, Capitanu, Colonellu, Sergenti, Maresciallu, Marescialluni, Avvocatu, Dittureddu, Farmacista, Spiziali, Officiali, Onorevuli, Parrineddu, Vicariu), sono interessanti quelli derivanti dai mestieri praticati. Curioso come, anche nel caso in cui nelle generazioni successive nessuno in famiglia continuasse a fare il mestiere che lo aveva originato, il soprannome sopravvivesse comunque (così, ad es., per Mulinaru, Caliaru, Canalaru, Stagnataru, Pridicaturi…).
Ovvio ritrovare nell’elenco tutti gli esponenti della “mastranza” paesana, immancabili in passato in qualsiasi comunità costituita, grande o piccola che fosse (Furgiaru, Vucceri, Furnaru, Carvunaru, Mastriceddu, Scarpareddu, ma anche Carritteri, Tabacchinaru); ma chi avrebbe immaginato che fosse esistito nell’Ucria dei tempi andati un individuo che di mestiere faceva il calaciaru, che cioè fabbricava, aggiustava (o vendeva?) calici, oppure l’arginteri, ‘u cucchiararu, ‘u cutiddaru,  l’ombrillaru, ‘u chiavaru, ‘u canalaru, ‘u bardunaru, ‘u ciancianiddaru, u’ raluggiaru, ‘u pitturi…
Qualcuno aveva a che fare con l’allevamento del bestiame (Craparu, Picuraru, Staddunaru, Vaccaru, Curatulu, Curateddu). Molti erano i venditori di merce varia, per lo più ambulanti: Castagnaru, Cirasara, Ugghiaru, Ugghiularu, Lardaru, Sardiddaru, Franninaru (= venditore di pezzi di stoffa[3]), Cracularu, Cipuddaru, Gaddinaru, Luppinaru, Pipariddaru, Pirsicaru.
Un discorso a parte merita il soprannome Sciameca, derivante dalla volgarizzazione di Shoemaker che in inglese significa ‘calzolaio’ e che testimonia che il primo titolare della suddetta’nciuria non soltanto faceva il ciabattino, ma che aveva fatto quel mestiere anche in America prima di rientrare in paese, dove gli amici, forse anche loro emigrati, gliel’ avevano affibbiata.
Il lettore più attento avrà notato come nella lista sopra riportata manchino totalmente soprannomi che abbiano a che fare col lavoro agricolo, che era quello a cui si dedicava la quasi totalità della popolazione ucriese nei tempi andati. Forse si potrebbe far rientrare in tale categoria qualcuno dei soprannomi che prima ho indicato come derivanti dal mestiere di venditore, intendendoli piuttosto come riferentisi alla coltivazione di un particolare prodotto (Cirasara, Castagnaru, Pipariddaru, ecc.), ma non credo sia il caso. Il motivo dell’assenza è a parer mio da ritrovare nella natura stessa del soprannome, la cui funzionalità prima, come più volte ho avuto occasione di dire, è quella di individuare in maniera univoca una singola persona e la sua famiglia all’interno di una comunità più vasta, di restringere al massimo il numero delle possibilità identificative. Ciò esclude automaticamente il ricorso a mestieri e specializzazioni troppo generici e propri di un numero ampio di persone.
Per concludere, un’ultima interessante notazione: tra le ‘nciurie prima elencate se ne leggono alcune che solleticano particolarmente la nostra curiosità e la nostra immaginazione. Mi riferisco a Rancasciaru, Piattinaru, Bannista, ma anche a Trummetta, Trummittuni, Trummuni. In tali soprannomi c’è un pezzo di storia della nostra vecchia Ucria, derivanti come sono dallo strumento che i titolari della ‘nciuria suonavano nella banda del paese. Oltre a tali soprannomi, esistono vecchie foto, ma anche documenti ufficiali, che ne testimoniano l’esistenza. Era molto conosciuta nei paesi viciniori, dove si recava a suonare nei giorni di festa o in altre occasioni particolari. Da un motivetto che suonava sempre (un tormentone, che era una specie di marchio di fabbrica e che purtroppo nessuno ricorda più), era conosciuta come ‘a banna ‘i pani e pira, pira e pani. Il suo repertorio, a giudicare da un elenco dei pezzi in programma, che è sopravvissuto e che mi è capitato di leggere qualche tempo fa, era di buon livello. Naturalmente, i pezzi più importanti erano eseguiti sul palco, nel grande concerto tipico della vigilia delle festività più solenni, una delle poche occasioni che aveva allora la gente dei piccoli centri di ascoltare musica di un certo tono. Il nostro vecchio complesso bandistico ebbe vicende varie. Dopo una prima fase e un primo declino, si tentò di rilanciarlo all’inizio del Novecento, ma si dissolse poi del tutto dopo la Grande Guerra, per via dei dissidi di natura politica, che caratterizzarono allora anche il nostro paese, e per l’intensificarsi del fenomeno dell’emigrazione, che sottrasse alla banda numerosi elementi, quasi tutti provenienti dal ceto della “mastranza”, quello che forse più di tutti risentì in quegli anni delle ristrettezze economiche causate dallo sforzo bellico. Non rinacque mai più, non potendosi certo chiamare banda la piccola fanfara che avrebbe poi accompagnato le varie sfilate nelle manifestazioni del ventennio fascista[4].






[1] Ad esempio, in una bella poesia di Mario Gori (Niscemi 1926-1970), dal titolo Cincu e dieci, si legge: “Sacciu un nidu rampicanti, a li chiuppira, addavì”.
[2]Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, non mi pare abbiano a che fare con un mestiere i soprannomi  Iudici, Bummularu, Macchiaru, Magareddu.
[3] L’etimologia della parola rimanda a stoffe delle Fiandre, ma col tempo il significato originario si era allargato comprendendo tutti i tipi di stoffa.
[4] Ho trovato tali informazioni sulla banda in un interessante  scritto di mio padre dedicato ai mestieri nella vecchia Ucria.

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