giovedì 14 gennaio 2016

NOTERELLE UCRIESI, 2 ’U zzu Canniloru ovvero Centu lupi ‘nta ‘na macchia * Nino Pinzone “Palagonia” *

NOTERELLE UCRIESI, 2
’U zzu Canniloru ovvero Centu lupi ‘nta ‘na macchia
* Nino Pinzone “Palagonia” *

Zzu Canniloru, ‘zzu Canniloru!” oppure “Centu lupi ‘nta ‘na macchia”!. Con queste espressioni (e con un tonalità  che è impossibile riprodurre per iscritto) ci apostrofava spesso mia madre nel caso in cui io o uno dei miei due fratelli esagerassimo o la sparassimo troppo grossa nel riferire di qualcosa. Come in molti altri casi, il motivo (l’aition, direbbero i dotti) dell’apostrofe è legato ad un divertente aneddoto, ad un raccontino che aveva per protagonista il non meglio identificabile (almeno per me) “zzu Canniloru” (zio Candeloro), raccontino che molti di quelli più avanti con gli anni forse ricorderanno e che voglio riproporre, così come lo raccontava mia madre, con la (spero non vana) speranza che i più giovani ne conservino il ricordo.
Se ne tornava costui dalla campagna (Belinu, mi par di rammentare), quando, senza che se ne accorgesse, gli si impigliò la manica della giacchetta in un rovo. Temendo che qualcuno o qualcosa lo stesse afferrando, si fece prendere dal panico e scappò a rotta di collo verso il paese. La madre se lo vide arrivare stravolto, trafelato e con la giacca strappata, e gli chiese con apprensione cosa mai gli fosse capitato. Quegli le rispose che aveva visto “centu lupi ‘nta ‘na macchia” e che era scappato perché se lo volevano mangiare. “Centu? Nun po’ essiri”, disse la madre. E il figlio: “Centu no, ma cinquanta erunu sicuru!”. Di fronte allo scetticismo della madre, dei familiari e di qualche vicino nel frattempo accorso a godersi il teatrino, Canniloru andò via via abbassando il numero dei lupi che avrebbe visto dentro una macchia, fino a ridurlo a uno.
Ma di chi culuri era?”, gli chiese ridendo uno dei presenti. Al che Canniloru: “E comu ‘u vidia? Ia cca, iddu a rocca i Sciliuni!”.
I lettori più avvertiti saranno sicuramente andati con la mente all’analogo conosciutissimo episodio (riferito anche dal Pitré) che aveva per protagonista un puparo, il cui nome variava da zona a zona, ma che nel messinese aveva quello di Lisciandru, forse perché don Lisciandru era il nome del puparo più noto nella città di Messina, dove faceva esibire i suoi pupi in un teatrino sito in via Palermo, diventato in tempi più recenti Teatro Valli per poi sparire del tutto.
Durante una rappresentazione, il puparo, preso dall’entusiasmo e dalla foga dell’azione, se ne era venuto fuori con una roboante esclamazione: “E allora Orlando, con un colpo di Durlindana, uccise cento Saraceni!”. E i presenti: “Cala don Lisciandru!”. Il puparo, incalzato dal pubblico, sempre più divertito, andò calando il numero dei mori uccisi, fino a quando spazientito non sbottò: ” E allora Orlando, con un colpo di Durlindana, uccise a tutti questi grandissimi figli di b…..” (una parola che non riporto per decenza, ma che fa rima col nome della celebre spada del paladino di Carlo Magno).
Come dicevo, con la variante del nome del protagonista e della località in cui si sarebbe verificato, l’episodio si racconta in tutta la Sicilia. E’ lecito dunque avanzare il sospetto che anche quello dello Zio Candeloro abbia avuto vicenda in qualche modo simile, anche se da una mia veloce inchiesta, limitata però ai paesi viciniori, non ho avuto riscontri. A garantirne l’autenticità non basta il fatto che il nome, anche se non molto diffuso, era comunque presente nell’onomastica ucriese; né che i toponimi riferiti (Belinu, Sciliuni) si riferiscono a località del territorio del nostro paese.
La certezza che l’episodio sia storico e che sia accaduto ad Ucria può vacillare anche guardando a quanto accaduto in riferimento ad un altro nostro modo di dire tradizionale.
Quanti di noi non hanno sentito chiosare le parole di chi si rassegnava alla provvidenza divina con l’espressione “Comu voli Dia!”, con la frase “dissi Fravetta, quannu si visti ecc. ecc.”? A lungo non mi sono posto il problema della genuinità e dell’ucriesità dell’episodio, finché, un giorno, un collega catanese non completò un mio “Comu voli Dia!” con “dissi Bavetta”, come mi disse fosse usuale a Catania, e non “Fravetta”, come si dice invece a Ucria. Capii allora che si trattava di uno di quegli  adattamenti a realtà locale di un episodio e di un detto di origine allotria e che ha una più larga area di diffusione, con fenomeno perfettamente noto agli studiosi di tradizioni popolari.
Poiché non è verisimile che un detto ucriese si sia diffuso a Catania e che invece è più logico pensare che sia successo il contrario, la reputazione del povero “Fravetta”, colpevole solo di avere un soprannome che faceva rima con “Bavetta” e di avere dei compaesani non proprio benevoli nei suoi confronti, va dunque del tutto riabilitata.
Che sia successo qualcosa di analogo per l’aneddoto dello zio Candeloro? Sarebbe interessante venire a capo dell’enigma, magari con l’aiuto della memoria di qualche anziano ucriese.
6 gennaio 2016

Nino Pinzone “Palagonia”.

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