giovedì 14 gennaio 2016

DUCI DUCI * Giuseppe Salpietro *

 DUCI DUCI
* Giuseppe Salpietro *



A differenza dei “sofisticati” dolci messinesi, ricchi di creme, ricotta, frutta candita e altre prelibatezze in grado di esaltare il palato e sorprendere le papille gustative dei “cittadini”, i dolci dei Nebrodi hanno nei secoli rivestito il ruolo solo apparente del parente povero, quasi “strazzato”, legando la loro sopravvivenza certo non ostentata, sia al lento cadenzare del calendario liturgico con i suoi inalterati riti che alternano festività religiose a periodi penitenziali, che alla sovrabbondanza di materia prima a basso costo facilmente reperibili nel territorio, in modo particolare la frutta secca.
L'utilizzo dei dolci nella cucina ha visto una notevole espansione solo negli ultimi quattro secoli, in concomitanza con una maggiore reperibilità di alcuni ingredienti, primo fra tutti lo zucchero. I dolcificanti infatti, rimasero per secoli legati al massiccio uso della frutta, dei derivati del mosto ed al miele che veniva aggiunto come ingrediente di complemento a molti altri alimenti.
Apparentemente, non sembra proprio che il comprensorio nebroideo abbia ricevuto influenza alcuna dalle tante leccornie, che a dire il vero si infornavano “a tinchité”  in tutti i Conventi siciliani e di cui le numerose monache risultavano gelose depositarie.
“I duci”, con i loro carico di simbologia rituale e il loro forte legame con il calendario liturgico, costituivano regali preziosi destinati ai benefattori del convento, perlopiù: vescovi, prelati, confessori personali, medici e professionisti; insomma, soggetti con i quali queste, molto spesso, dovevano entrare in contatto per le incombenti necessità terrene. A tal proposito, ricordo che per anni nei miei periodici spostamenti a Palermo cercai senza mai trovarla “a minna da monaca”, dolce che richiama nel suo nome il legame con il luogo ecclesiastico che ne custodiva i procedimenti di realizzazione, ma che ne svela anche la sua ardita forma.
In tempi relativamente recenti, nonostante questa concentrazione di ogni ben di Dio nelle città e nei conventi, nelle comunità che abitavano i luoghi lontani dalla vita più agiata e dalla costa, era inimmaginabile per cronica carenza di risorse e di clientela una autonoma attività pasticcera, risultando l’arte nella pratica demandata in via complementare e succedanea  a quella categoria di artigiani già capillarmente diffusa in ogni angolo sperduto del territorio: “u funnaru”, che nonostante ciò, non poteva certo sfruttare posizioni monopolistiche, considerato che orde di massaie erano in grado di soddisfare le pur modeste esigenze familiari con abbondanti cucchiaiate di biancomangiare ( tra i più poveri e diffusi dolci a base di latte), di mostarda (realizzata al tempo della vendemmia con il mosto), di farinata (realizzata con fichi d’india), di “turruni boni pi rumpiri i denti”, ottenuto dalla cristallizzazione dello zucchero in un tegame, miscelato durante la fusione con nocciole abbrustolite dopo la sgusciatura.
Nel piccolo centro di Ucria ricordo ancora “a Turturiciana”, una fornaia originaria di Tortorici, che trasferitasi dal vicino Paese, lì aveva impiantato la propria attività economica portando in dote parte delle tradizioni legate all’arte della pasticceria panaria del paese di provenienza. Come ricordo il sig. Salvatore Russo “u funnaru”, che in Piazza Dante replicava produzioni di biscotti e “pipareddi” secondo tradizioni apprese in gioventù a Randazzo ed ancora il bar Franchina, posizionato all’estremità a monte del belvedere rinomato per i suoi biscotti di Riposto ed il bar Salpietro, attuale bar Roxy, specializzato nella produzione di torroni.
Nonostante il mulo e lo “scecco” non agevolassero la velocità dei traffici, la contaminazione delle tradizioni tra zone viciniori era forte, specie per fatti legati alle non infrequenti vicende terrene d’amore, e come effetto era complicato capire se la Pasta Reale della “tortoriciana” fosse migliore da quella prodotta nel territorio che ne reclamava le origini facendole risalire al 1600, o se i “pipareddi” del giovane randazzese Russo, non superassero nel sapore delicato e dolce le più blasonate e complesse preparazioni del grande centro del catanese.
Se cercate qualcosa che unisca gli uomini attraverso i secoli, i continenti e perfino le religioni è “u duci”.
Tra questi posto di rilievo merita la Pasta Reale, che già anticipa nel nome la regalità del prodotto dolciario, pasta da Re. Il dolce viene preparato dopo avere eliminato la pellicola alle nocciole ancora calde ed averle pestate nel mortaio o nella madia, amalgamando in un tutt’uno con l’ausilio di poca acqua, granella di nocciole tostate e zucchero in parti uguali. L’impasto ottenuto, richiede che con le mani vengano composte delle grossolane sfere di pasta amalgamata poi adagiate sopra una “lanna”, esercitando nel contempo, una leggera pressione con tre dita (pollice indice e medio), allo scopo di ottenere tre solchi. Nella teglia da forno leggermente unta dove procederà brevemente l’asciugatura, l’impasto nella forma così ottenuta di tronco di piramide, viene posto nel forno che ad una temperatura di circa 160 gradi determina la cristallizzazione del prodotto finito rendendolo gonfio e dorato, a forma irregolare e dalla consistenza croccante. Le singole forme di Pasta Reale fatte raffreddare e staccate dalla “latta” vengono cosparse di abbondante zucchero a velo, come fossero imbiancate da delicata neve caduta sui monti.
Specialità della “tortoriciana” era poi “a nuvoletta”, diffusa anch’essa in tutto il comprensorio dei Nebrodi.  Dolce a base d'uovo e farina, perfettamente piatto alla base, dal tipico colore bianco della pasta ricoperta da una crosta panciuta sottile prevalentemente liscia, ma a tratti rugosa, morbido e soffice proprio come una nuvola. La lavorazione di queste nuvole, richiede che siano montate a lungo uova con dello zucchero fino ad ottenerne un composto spumoso che miscelato a piccole quantità di farina diviene liscio ed omogeneo. L'impasto  viene poi disposto a cucchiaiate sopra una teglia, rispettando una distanza idonea ad impedire che i singoli pezzi ottenuti si attacchino tra loro, che sarà poi riposta nel forno ad una temperatura di circa 180 gradi  per 15/20 minuti.
Specialità del fornaio Russo erano invece i biscotti a forma di S  chiamati “a Batia”, nome che rivela anche in questo caso le origini del prodotto dolciario legato indissolubilmente all’abbazia, complesso di edifici claustrali dove viveva la comunità monastica.
Come fortemente legate ai prodotti del territorio vocato in modo radicale all’attività coricola erano i “pipareddi”, ottenuti dall’impasto di nocciole, farina e zucchero che adagiato a forma allungata, veniva dopo una prima fase di cottura, tagliato a strisce uniformi che reintrodotte nel forno per completare la cottura, acquistavano una doratura completa sui quattro lati ed una croccantezza uniforme.
E come non ricordare ancora, tipica delle festività pasquali ed invero estesa a  quasi tutti i paesi di Sicilia, la produzione delle “cuddure”. Dolce di antica origine contadina, legato all'uso dell'uovo, un alimento che non mancava mai, e considerato per molto tempo il dolce dei poveri: “pupi cu l’ova, aceddi cu l’ova, cuddura, cannateddi, campanaru, panaredda,cuddureddi, cullure, … “, il modo di chiamarlo cambia da paese in paese, ma resta da sempre un dolce tipico della Pasqua nella tradizione radicata della Sicilia, ed indipendentemente dalla forma, l’importante è che le uova siano di numero dispari. Non v’era nessun bambino che non ne ricevesse una di cuddure e gli abili panettieri sbizzarrivano la loro creatività creando intrecci, cestini e colombe che rapivano per la bellezza artistica, ma anche per i colori sgargianti ottenuti talvolta, applicando piccoli frammenti di carta lucida ad esaltarne i dettagli. Sempre nella tradizione vi era inoltre l’uso di una forma piuttosto che un’altra in base alla persona che doveva riceverla. La classica era quella circolare da cui prende appunto il nome “a cuddura” dal greco kulloura che significa “corona”, a forma di campana per sottolineare la festa della resurrezione, a forma di cesto per augurare abbondanza, e così via, e più uova c’erano maggiore era l’importanza della persona a cui andava regalata. E per buon augurio di fertilità le uova andavano colorate di rosso facendole bollire in un decotto di  una radice che gli dava la colorazione rossa.
Una variante molto simile, con intrecci sagomati a forma di cuore, era preparata dalle giovani donne in età da marito per i fidanzati a dimostrazione dei loro forti sentimenti.
Il dolce è sapore e simbolo, gusto e filosofia, piacere e pensiero.
La storia del “dolce” ci porta alla scoperta di una vicenda appassionante che attraversa i millenni per arrivare non solo al nostro palato ma anche al nostro modo di vivere, ma nessuno pensa mai al valore simbolico della “guantiera”.
Era infatti d’uso recarsi a fare visita a parenti ed amici immancabilmente con una guantiera di dolci. Soltanto in occasione di funerali ed altri eventi infausti, era contemplata la possibilità di portare in dono zucchero e caffè. Per il resto, l’incontro con consanguinei ed amici, doveva essere sacralizzato da una bella guantiera di dolci. A Messina: cannoli, viennesi, paste ripiene, pesche, nzuddi, pastine secche o biscotti da te riservati prevalentemente agli ammalati, venivano prima riposti sopra una elegante carta “a pizzo”  adagiata sopra il vassoio, ed il tutto ricoperto con altra carta traslucida e poi avvolto ancora nella carta da pasticceria rigorosamente personalizzata. Fondamentale risultava proprio la personalizzazione, oggi diremmo il packaging, che attestava senza ombra di dubbio alcuno la provenienza e la riconosciuta maestria degli apprezzatissimi pasticceri, un tempo abili maestranze dei diversi rinomati laboratori esistenti: Billè, De Pasquale, Irrera, Jeni, Petrella, Pisani, Vallone, Venuti ..
Sui Nebrodi la guantiera, che etimologicamente e storicamente nasce come contenitore di guanti, appare più ordinaria, il cartone pressato che ne costituisce la base non era né dorato né argentato, mai sperluccicante, la carta era grossolana e priva di insegne riconducibili al produttore, ma se la prosa vale quanto la poesia, il contenuto fatto di dolci semplici e genuini, ricchi di tradizioni, esperienze tramandate, necessità di vita concrete, ne fa comunque delle piccole opere d’arte capaci di donare non solo sensazioni piacevoli al gusto, ma cibo per lo spirito.


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